La serie in vista del Torino Crime festival (in programma dal 6 aprile): diciassettesima puntata

Torino ospiterà anche quest’anno il Torino Crime Festival, rassegna dedicata al crimine nella letteratura e nella scienza, nel cinema e sui giornali. La rassegna si inaugura il 6 aprile, La Stampa la precede con un countdown ripercorrendo gli ultimi 30 anni della storia d’Italia attraverso trenta crimini, uno per ogni anno dal 1987 al 2017, e riproponendo le storie una al giorno. Oggi tocca alla storia del 2001, quella di Michele Profeta, il killer di Padova. Il 10 gennaio 2001 la Questura di Milano riceve una lettera che chiedeva 12 miliardi per evitare una serie di omicidi di persone scelte a caso. Il 29 gennaio 2001 Pierpaolo Lissandron, taxista a Padova, fu trovato sulla sua auto ucciso da un colpo alla nuca. L’11 febbraio il cadavere dell’agente immobiliare Walter Boscolo, anche questo freddato con un proiettile alla nuca, fu trovato in un appartamento. Sul posto vennero trovate due carte da gioco e una lettera del serial killer. Il 16 febbraio 2001 viene arrestato Michele Profeta: condannato all’ergastolo, è morto in carcere (a San Vittore, Milano), il 16 luglio 2004. Abbiamo recuperato dall’archivio un ritratto di Profeta scritto da Fabio Poletti per l’edizione del 14 marzo 2003, in occasione del processo d’Appello. Il killer si giustifica: ho ucciso perché me lo ha ordinato una voce.

«Una brava persona con una bomba atomica nella testa». Non sono le metafore che mancano all’avvocato vicentino Cesare Dal Maso, difensore di Michele Profeta, il serial killer padovano condannato all’ergastolo per due omicidi senza movente. Oggi a Venezia inizia il processo d’appello. C’è solo una cosa da stabilire, che di prove contro Profeta ce ne sono anche troppe. C’è da stabilire se Michele Profeta era capace di intendere e di volere e allora vanno bene l’ergastolo e la cella singola nel carcere di Voghera. Oppure se non lo era, c’è l’altra strada, quella che porta al manicomio giudiziario. «Non c’è altro nei miei motivi d’appello, solo questa richiesta di sottoporre il mio cliente a una perizia psichiatrica», spiega il legale, 19 pagine che porterà oggi nell’aula bunker di Venezia.
Diciannove pagine e due allegati. Il primo è una specie di confessione scritta di pugno da Michele Profeta. Due lettere inviate al suo difensore per posta, un altro messaggio consegnato a mano, alcuni fogli, fitti di una calligrafia minuta e dei suoi deliri. Dove Michele Profeta scrive: «Ho ucciso, me lo ordinò una voce amica. Mi ha costretto a farlo. Dovevo sacrificare due vittime innocenti. Una al Dio del bene, l’altra al Dio del male». La voce amica sarebbe quella di una lontana parente, di una zia rimasta in Sicilia («Zia Antonietta, l’unica che mi abbia mai aiutato») dove Profeta è nato 55 anni fa. Ma la «confessione» non finisce qui.

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(La Stampa del 14 marzo 2003) 

Scrive ancora in un altro foglio: «Mi sentivo un sacerdote, credevo di essere nelle mani di Dio e invece ero nelle mani del maligno». Sono quelle «voci» che lo portano ad uccidere, a sparare nel mucchio con la vecchia Ivery and Johnson che gli trovano a casa, prova provata del duplice omicidio, del tassista Pierpaolo Lissandron ammazzato in centro a Padova il 29 gennaio del 2001 e quello dell’immobiliarista Walter Boscolo, proiettili in testa anche per lui pochi giorni dopo, il 10 febbraio. Nei suoi scritti Michele Profeta ricostruisce i due omicidi nei dettagli.


Prima quello del tassista: 
«Quando sentii la voce della mia madrina trasalii, non me lo aspettavo… la voce mi disse che quella era la vittima sacrificale per il Dio del bene e che avrei dovuto colpirla alla testa per non farla soffrire. Ho ubbidito e subito dopo l’ho scrollato, era morto», Poi quello dell’immobiliarista, anche lui scelto a caso, dopo una telefonata a un’agenzia in cui Profeta chiede di poter vedere un appartamento: «La voce mi disse nuovamente che era lui e che questa volta sarebbe stato sacrificato al Dio del male. Anche questa volta è stato come se fossi al di fuori e mi osservassi in uno specchio. Ho avuto la sensazione, quando mi sono allontanato, che la mia immagine fossa rimasta ferma nello specchio».
Il Bene e il male. Zia Antonietta. Gli omicidi come unica possibilità di salvezza dopo una vita balorda, due convivenze con due donne che non sapevano l’una dell’altra, il lavoro di immobiliarista finito a rotoli, la prima volta per colpa di una cooperativa di tassisti ai quali non aveva pagato la pubblicità e la seconda per la sua incapacità. O follia. Che prima di ammazzare, prima di fare volantinaggi porta a porta, prima di quelle lettere al Questore di Milano in cui chiedeva 12 miliardi per non uccidere più, la vita di Michele Profeta era già un calcolo di probabilità. Lo scrive lui stesso: «Andavo al casino di Venezia, studiavo la roulette per cercare di prevedere i numeri. Alla fine mi ero ridotto a complicati calcoli sulla sequenza delle targhe delle auto che mi passavano davanti».
Solo le «voci», lo avrebbero salvato. La voce della sua «madrina»: «Mi diceva di pensare ai sacrifici che nell’antichità si facevano per ingraziarsi gli Dei, mi diceva di pensare al sacrificio di Gesù…». Un delirio mistico. Coltivato anche in cella a Voghera, dove la sua unica compagnia è la Sacra Bibbia. Visto che gli altri detenuti gli stanno alla larga. E una volta che lui si era avvicinato a Renato Vallanzasca, stesso carcere, stessa sezione ma ovviamente altra cella, il René della Comasina gli aveva sibilato: «Ma che vuoi?». Che in carcere lo sanno tutti che Michele Profeta non è a posto con la testa. Lo aveva capito anche il professor Vittorino Andreoli, lo psichiatra della difesa al primo processo: «Siamo di fronte a gravi disturbi della personalità».
Diagnosi confermata, per ora solo sugli scritti, dal professor Giovan Battista Traverso, il nuovo consulente della difesa: «Un grave disturbo connotato da forti tratti di borderline, narcisistico e paranoideo, patologia che può aver esposto il soggetto, dotato sì di un ego ipertrofico e grandioso, ma di un ego certamente immaturo e fragile che in condizioni di elevato stress lo hanno portato ad uno stato di vero e proprio scompenso con conseguente deragliamento psicotico commisto a tematiche di tipo mistico e religioso».
Un quadro più che sufficiente, secondo il legale, per chiedere una perizia psichiatrica e l’assoluzione per impunibilità di Michele Profeta, il serial killer di Padova che questa mattina per la prima volta sarà in aula a Venezia. Pronto a chiedere la parola e cercare di spiegare quello che ha già scritto al suo avvocato: «Sono stato io ad ammazzare due volte. Sono state quelle voci che sentivo nella mia testa, ad ordinarmelo. E io lo facevo, dopo una vita di pace e di rassegnazione, sia fatta la volontà di Dio».

Fabio Poletti

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